La recensione del capolavoro dei Soft Machine Third
Questa combinazione fortunata di feste, ponti e fine settimana mi hanno lasciato finalmente un po’ di tempo da dedicare al blog che ultimamente stavo trascurando.
Dovendo ricominciare, ho deciso di farlo alla grande pubblicando alcune rielaborazioni fatte con GIMP di un album che a giusto titolo può essere definito il “Disco” della Saluzzi’s Home Record Collection: Third dei Soft Machine.
Lusingato dagli elogi unanimi della critica che considera Third uno dei più importanti dischi della musica di sempre, ho comprato la mia prima versione in CD dell’album ormai più di quindici anni fa.
Per almeno dieci di questi, però, il disco se ne è stato in silenzio a prendere polvere nel mio porta CD.
Quando poi ho approfondito la conoscenza della Scena di Canterbury e dei Soft Machine, ho capito che il rigetto verso il disco non era casuale ma frutto di un trucco usato, secondo me con coscienza, per allontanare gli ascoltatori della prima ora.
Uno sporco trucco…
Usando un espediente utilizzato anche da Umberto Eco nei suoi romanzi più famosi, i Soft Machine iniziano l’album con 5 minuti di stridenti deliri provenienti dalle tastiere di Mike Ratledge, lunghi e strazianti a sufficienza da far scappare tutti gli avventori della prima ora, quelli che vogliono ascoltare Third perchè il “Jazz-Rock è figo” o quelli che arrivano al disco solo dopo aver letto qualche panegirico di qualche intellettualoide che esalta il disco come una delle pietre miliari della musica Rock.
Il succo è: chi non è veramente interessato non è ben accetto!
In realtà dopo i primi 5 minuti l’album inizia a prendere forma ed a diventare un affresco monumentale dalle mille sfaccettature difficilmente eguagliato nella storia della musica.
Il problema è che all’epoca io, e chissà quanti altri come me, non conoscendo il trucco ci siamo fermati ai primi 2-3 minuti del disco perdendosi questo capolavoro.
E poi dicono che questo blog non serve a niente! :).
un po’ di intelligenza, tanta sperimentazione…
Third, poi, è un esempio di come un problema contingente possa essere risolto e fatto diventare un punto di forza dell’album.
Ascoltando le versioni live dei brani dell’album ci si rende facilmente conto che, una volta arrivati in studio di registrazione, i 4 pezzi di Third erano troppo lunghi per stare su un unico LP (40-45 minuti) ma troppo corti per stare su due. Scelta la strada del doppio album con un brano per facciata, quindi, i Soft Machine hanno dovuto escogitare diversi espedienti che, se avevano il poco nobile scopo di allungare il brodo, a posteriori si sono rivelati geniali:
il trucco dei primi 5 minuti di cui abbiamo già parlato, la fusione di due versioni live di uno stesso brano (sempre in Facelift), l’interpolazione di brani all’interno di un altro (Noisette e Backwards in Slightly all the Time), il lungo assolo di violino atemporale e atonale alla fine di Moon in June oppure il massiccio utilizzo dei nastri (i progenitori dei moderni campioni) un po’ ovunque ma in particolare in Out Bloody Rageous.
Questi esperimenti di “post produzione”, il lavoro sui nastri, sulla rumoristica e sulla sperimentazione sonora aggiunsero all’album dei chiari richiami alla musica classica elettroacustica dell’epoca (Terry Riley e Karlheinz Stockhausen ad esempio) e sono secondo me uno dei punti di forza del disco.
e Robert Wyatt, naturalmente.
L’altro pezzo forte di Third è naturalmente Robert Wyatt.
Diciamocelo, senza di lui, e senza gli esperimenti in studio, il disco sarebbe stata semplicemente la risposta inglese a Bitches Brew di Miles Davis (pubblicato meno di un mese prima).
Wyatt, invece, anche se in quel periodo iniziava a sentirsi di troppo in questi Soft Machine Jazz (di lì a poco sarebbe uscito dal gruppo), prima di andare via ha il tempo per firmare un brano che Scaruffi descrive così: “The Moon in June rimarrà probabilmente nel canone della musica occidentale anche dopo la scomparsa della musica rock”.
Scusate se è poco.
Di Moon in June si potrebbe parlare per ore; in questo post, però, mi resta il tempo di parlare soltanto di un curioso omaggio che Wyatt fa all’interno del brano all’ex membro del gruppo ed amico Kevin Ayers.
Ascoltando bene, sull’ultima parte del brano (quella del già citato assolo di violino), infatti, si sente il batterista in sottofondo cantare due canzoni di Ayers: Singing a song in the morning (quella registrata anche con Syd Barrett) e Hat Song.
Qualche mese dopo Kevin Ayers, che evidentemente ha colto il riferimento, in quello che molti considerano il suo capolavoro, Shooting at the Moon, registra il brano Clarence in Wonderland (già vecchio cavallo di battaglia dei Soft Machine) dove sul finale “Miss Juliet Kate, queen of the Moon” diventa “Queen on the Moon in June“.
Che teneri.
Questo per me è Third:
Uno sporco trucco, un po’ di intelligenza, tanta sperimentazione e Robert Wyatt, naturalmente.
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Le foto sono elaborate dalla mia versione dell’album acquistata lo scorso anno su Ebay da un signore di Bielefeld che per 6 Euro mi ha venduto sia Third che Fourth. Grazie ancora!
Titolo: Third – Artista: Soft Machine – Etichetta/N. serie: CBS – S 64079 e S 64080 – Formato: 2 x Vinyl, LP, Gatefold – Paese: UK – Anno: 1970 (originale) – Data di acquisto: 3 febbraio 2012 – Prezzo: € 6 (incluso anche Fourth) – Venditore: Privato di Bielefeld tramite Ebay.
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Un po’ di link:
l’ottima recensione dell’album di Onda Rock, ed il solito Scaruffi che non è mai scontato.
Dei primi due album del gruppo Soft Machine e Vol. 2 ne avevo già parlato qui.
In realtà appena posso non perdo occasione di scrivere qualcosa sui Soft Machine; se vi piacciono, quindi, di post su di loro su SHRC ne trovate a bizzeffe.
Sempre interessanti i tuoi post.
Ogni volta fai venire voglia di approfondire i temi trattati.
Bravo, continua così
Grazie fratellone, mi fa veramente piacere 🙂
Un “ritorno” alla grande!
Troppo buono Evil 🙂